sabato 13 gennaio 2024

Ultimi giorni a Delhi



 
Giunti a Delhi il lunedì mattina, andiamo a posare i bagagli e, nonostante la notte poco riposante, Silvia decide di andare a vedere qualcosa in città.
La meta prescelta é la tomba di Humayun, caldeggiata dall’amica di Panchkula, così Silvia prenota un Uber che ci scarica li davanti.
Più o meno.
 
 
Nel senso che il complesso è separato da una strada dai giardini li di fronte, e la macchina ci molla davanti alla biglietteria dei giardini, e noi da babbioni paghiamo il biglietto senza manco sapere cosa stiamo pagando.
Matteo non si raccapezza nella mappa, e chiedendo indicazioni, capiamo l’inghippo.
Ovviamente Silvia ha già prosciugato le energie e non ne ha abbastanza per visitare entrambi i posti, quindi ci spostiamo all’altra biglietteria per pagare il solito prezzo maggiorato per alieni e ci incamminiamo verso il mausoleo, mentre Silvia trascina i piedi sempre di più come solo uno zombie
Motorini con le rotelle

Tempo di arrivare d’innanzi alla costruzione, Silvia dichiara forfait e Matteo va a fare un breve giro della tomba.
La struttura è predecessice del Taj Mahal, in quanto prima costruzione Mughal del Paese.
In effetti sono assai simili, ma il rosso spento, e la parsimonia nei particolari (adeguata ad una tomba se ci si pensa), e la completa vuotezza del luogo, oltre che una moglie baracchevole da recuperare, rendono il giro di Matteo assai rapido.

Così, consci di aver sperperato i soldi anche di questo biglietto, usciamo dal complesso megalomane ed attraversiamo la strada in cerca di cibo per ricaricare le pile non Duracell di Silvia.
Ci tuffiamo in un quartiere musulmano, e la prima bettola serve solo roba a base di pollo, così Silvia decide di uscire.
Seconda bettola, stessa storia, ma stavolta Silvia dice ok anche se continua a dire a Matteo che meglio non mangiar carne... ci sediamo e annuiamo a qualsiasi cosa ci dicano in tema di scarno menù offerto dal locale.
Arrivano due piatti con cosce di pollo speziate in qualche salsa e roti cotti nel forno tandoori.
Mentre stiamo gozzovigliando, Silvia chiede a Matteo quale sia il pasto che gli è piaciuto di più in India. Per lei quello nella bettola in strada di Pushkar, mentre Matteo risponde “Questo qui che stiamo mangiando ora!”.
Mentre sfogliate con cura le pagine dell’almanacco di Ramblingzucchini, la pagina seguente mostra Matteo, in piena notte, madido di sudore freddo, seduto sul cesso in preda ad un attacco multiplo e miltidirezionale di diarrea.
Povero allocco.
Ma questo era lo stacco comico della storia, nella realtà, torniamo indietro di qualche passo fino al nostro pasto gallinaceo.
Vorremmo andare a vedere una moschea lì vicino, ma Matteo è in braghette e non ci va di farci rimbalzare all’ingresso, quindi, dopo aver visto da lontano un altro paio di “attrazioni” poco convincenti, siamo tornati a fare un riposino.
Esatto. Tanto i tuoi “reels” non se li fila nessuno

La pancia di Matteo inizia a gonfiarsi come un pallone, mente Silvia non ha nessun problema, quindi quando si esce per bettole a cena, lui non si sente di mangiare e fa solo da accompagnatore.
Visioni di altri tempi

Si ferma in farmacia a prendere dei probiotici, di cui sa già che avrà molto bisogno, e la farmacia espone una statua di Buddha con lo zampillo che gli esce da in mezzo alle gambe 
Buddha incontinente. La foto non rende bene

Tornati all’alloggio il disagio è ormai notevole, e le fastidiose tecniche da modella anoressica non producono alcun risultato.
Come anticipato da Matteo stesso qualche sera precedente “Certo che venire in India e non farsi neanche una diarreina pare un peccato”.
E così, questo è il motivo per il quale questo post è scarso di immagini, sia perché Delhi ha offerto pochi spunti (complice la nebbia/smog), sia perché Matteo è rimasto a letto tutto il martedì e mercoledì.
Ma d’altra parte siete qui a leggere delle nostre disavventure, se volete i blog con le 10 migliori attrazioni da vedere a Delhi negli anni bisestili con luna crescente, il web è pieno di foto accattivanti.
Il giorno dopo la “nebbia mentale” (come la chiamano in inglese) è degna di un iwik, corroborata dalla febbre a 38,5.
Silvia si veste da brava infermierina e rimane nei paraggi tutto il giorno. Fa il giro dell’oca fino alla noia che si dimentica pure di pranzare. Poi torna a veder come sta Matteo ma preferisce lasciato riposare e torna a fare altro giro dell’oca perché a 30minuti a piedi nei paraggi non c’è veramente niente da vedere. Persino i tuk tuk drivers si fermano a chiederle “Ah sei ancora qui?”. L’importante però è che quello-che-non-ascolta non peggiori. Ah si nel mentre Silvia prova anche ad assaggiare verdura cruda dove ha il sentore che si possa fare ed è al settimo cielo, sembrano le verdure dell’orto di mamma Giò. 
Mercoledì, Matteo si sente decisamente meglio, ma per evitare conseguenze tipo quelle del Vietnam, decidiamo di andare in ospedale per un controllo.
In ospedale sono cortesi e d’aiuto, ma Matteo, oltre a qualche flebo di liquidi e medicinali vari ed esami del sangue, non si fa fare, visto che in pratica offrivano solo osservazione. 
Silvia rimane stupita dalla rapidità del tutto, solo cinque ore quando in un qualsiasi paese occidentale peen una cosa de genere almeno 12 ore ti partono o 10 se ti va bene. Probabilmente è perché qui l’ospedale se lo possono permettere in pochi, però è anche vero che la piccola sala d’emergenza si è riempita velocemente. Inoltre qui prima paghi le medicine e devi andare a prendertele nella farmacia dell’ospedale, quindi non puoi venir da solo, dopo te le somministrano e dopo rivalutano la situazione e decidono il da farsi. La pulizia lascia sempre a desiderare e Silvia cerca di assicurarsi che usino almeno l’alcol per sterilizzare dove prelevano il sangue visto che di guanti nemmeno l’ombra. Però davvero carino il personale.
A mezzogiorno siamo fuori, Matteo torna in albergo a stare buonino, mentre Silvia va ad esplorare old Delhi (che descrive più delirante di quello che abbiamo sperimentato ad Agra) e che si trova a 20 minuti di macchina, rimanendo in contatto con Matteo per supervisionarlo da lontano.
E così Matteo, con 3 giorni e mezzo a Delhi, ne ha usato solo uno e mezzo. 
Comunque, medicine e dieta ferrea a base di crackers e riso bollito lo hanno rimesso in mezzo sesto per il giovedì, così che siamo andati a vedere un po’ di città.
Cominciamo da Akshardham, un “tempio” indù nuovo di pacca, che di tempio non ha granché visto che nessun devoto affronterebbe tutti i controlli che abbiamo dovuto passare per entrare. Infatti dentro c’erano solo turisti indiani e stranieri.
Foto nessuna perché, oltre alla solita nebbia, niente borse e niente telefoni permessi, cosa che lascia davvero assaporare il monumento.
Ma, nonostante qualche dettaglio piccolo un po’ approssimativo, dobbiamo dire che è una costruzione straordinaria. Vi consigliamo di cercarlo su internet.
I marmi all’interno arrivano direttamente da Carrara, e nonostante Matteo conosca bene l’altra faccia delle cave di marmo nelle Alpi Apuane, dobbiamo dire che i dettagli delle sculture in marmo che tappezzavano (letteralmente), dal pavimento al soffitto, l’intero tempio, erano indescrivibili.
Alle volte, guardando i soffitti, quasi gli occhi si incrociavano e pareva formarsi un’immagine come negli stereogrammi.
Veramente, veramente un’opera come non ne abbiamo davvero mai viste. Inoltre l’ingresso è gratuito, che non guasta, e a pagamento ci sono solo varie mostre ed attrazioni.
Ha anche qualche Guinness world record (contestato) per un tempio del genere, e all’interno si racconta la vita di un qualche saggio/santo che ha ispirato l’intero movimento. È sicuramente la più bella opera o costruzione vista in India, anche se mezza fasulla cioè costruita apposta perché fosse un'attrazione.
Dopo pranzo, Matteo sbaglia di nuovo direzione in metropolitana 😩, e così andiamo verso Jama Masjid ed il Red Fort, di cui avete solo un paio di foto perché si poteva entrare solo nel piazzale della moschea, mentre il forte era come quelli visti finora ma senza la parte bella.
La scalinata di Jama Masjid

L’ultimo tratto pedonale per raggiungere la zona del Red Fort conferma una intuizione che aveva avuto Matteo, ovvero: l’India d’oggigiorno è un macello, ma se analizziamo le fonti di rumore sonoro e visivo ed immaginiamo di cancellarle con una gomma, levando mezzi a motore e i loro dannati clacson (secondo noi è l’unico Paese al mondo dove ogni tanto devono cambiarlo per usura), le linee elettriche jungliformi e anche una buona dose di gente, l’India di 100-150 anni fa doveva essere un posto molto diverso, e forse esotico nella sfumatura giusta.
Consci che, senza aver visitato la città, sono nozioni un po’ inutili, abbiamo trovato un paio di video a riguardo 


Il tratto pedonale sopracitato, aveva eliminato solo uno di questi elementi di rumore, e già l’avere solamente risciò in giro dava un’altra temperatura acustica.
Il Red Fort da Lahore Gate

Dentro  l’immenso forte di costruzione Mughal, non abbiamo trovato niente di impressionante, e non abbiamo fatto foto, se non ad un angolino disperso dove il suo amato alberello gli regalava scampoli di rovine d’avventura 

 
 
Quindi torna da Silvia, la quale aveva già intuito che il forte non meritasse le sue energie.
Torniamo in albergo, ed iniziamo il Tetris per chiudere i bagagli, dopo di che Silvia, ormai già una guida locale, ci porta a mangiare, e mentre lei fa gli ultimi assaggi, Matteo rimane sui suoi binari di riso bollito e roti 


Sorridenti come nelle pubblicità della Dechatlon

La mattina di venerdì saliamo sul nostro millesimo Suzuki Wagon R Indian edition e ci dirigiamo in aeroporto 
Colazione al sacco in aeroporto

E così cala il sipario su questa vacanza-viaggio. Era partita come una vacanza, ma se non ricordiamo male, era Jovanotti a dire qualcosa del tipo “Solo quando arrivi in un posto e ti chiedi cosa ci sei andato a fare, allora inizia il viaggio”.
Matteo è contento di essere venuto, ma non per questo vuol dire che abbia adorato il posto. È inutile stare a montare castelli per aria immaginandosi un posto ed idealizzandolo per anni, meglio andare a vedere coi propri occhi e almeno placare le fantasie.
Come è inutile dire tanti “si, però” per giustificarlo ingiustamente rispetto ad altri Paesi. Si il meteo faceva schifo, ma quello è. Si, i libri letti raccontano un Paese di un’epoca passata che non c’è più, e noi possiamo solo viaggiare nello spazio e non nel tempo. L’India sarà stata diversa in passato, ma è adesso quello che conta.
L’unica cosa che gli viene da dire, è che ha avuto questa sensazione che l’India abbia il pelo arruffato e la pelle spessa, e sia più difficile “entrargli sotto la pelle” che non in altri posti. Vede che da qualche parte a qualche livello c’è fascino e bellezza, ma non è ostentata, e ce lo siamo sempre detto, se si va in India si deve andare per 6 mesi. Noi siamo stati 20 giorni e tante cose le abbiamo sfiorate alla velocità di un aereo.
Matteo capisce di più, adesso, una frase sentita in un podcast di viaggi tempo fa, e che lo aveva sorpreso e lasciato perplesso: sembra ci siano viaggiatori tipo Thailandia e viaggiatori tipo India. Non credeva esistesse differenziazione per sfere di sintonia.
Diciamo che senza dubbio noi siamo del tipo Thailandia, dove il ritmo è meno caotico, c’è piu ordine ed eleganza, ed il sacro e profano si mescolano con più regalità.
L’India forse è più per punk e gente da centro sociale (per fare una semplificazione di facile comprensione e senza voler giudicare o sminuire).
Sta di fatto che Matteo non si sente di chiudere il conto e, nel viaggio di ritorno, durante uno scalo a Bangalore, l’aeroporto che sembra la hall di un albergo di lusso ed il clima caldo che Silvia tanto adora, ci hanno fatto chiedere se magari semplicemente non avremmo apprezzato di più l’India del sud. 



 
 
Il Paese è talmente vasto e diversificato (con le sue 22 lingue e 1600 dialetti, oltre alla cucina più variegata che quella italiana), che dire di averlo visto è come dire di aver visto l’Italia giudicandola dalla Lombardia.
Le analogie con l’Italia sono parecchie, e scrittori illustri, prima che ve lo dicesse Matteo, hanno definito gli indiani come gli italiani d’Oriente.
Vedremo cosa riserva il futuro.
Mentre Silvia vorrebbe salire su un aereo per tornare  in Italia, è invece il momento di tornare in NZ.

Al prossimo post!

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